RIFLESSIONI TRA AMICI CHE CONFRONTANO LE PROPRIE IDEE PER IL FUTURO POST-PANDEMICO IN UNA PERIODO DI CONVERSAZIONI VIA ZOOM CHE HO TROVATO INEBRIANTI
by Massimo Usai
Ho avuto per mesi nella mia mente una storia che avevo letto tantissimi anni fa.
Che mi rimbalzava da un lato all’altro della mia mente ma che non riuscivo a mettere bene a fuoco.
Era una storia che lessi in un libro e sapevo che quel libro l’avevo letto a scuola, forse avevo 16 anni o qualcosa di simile.
Come tutti quanti, i libri letti a scuola sono sempre in un primo momento “pesanti” da digerire.
Le imposizioni della mia professoressa di letteratura, mi facevano sempre sentire “obbligato” a quella lettura, e trovavo nella mia ingenua giovinezza, che sarei dovuto essere libero di “scegliere” cosa voler leggere.
Quanti libri, che al tempo leggevo con fatica, perché’ forzato a leggerli e studiarli, poi li ho ripresi anni dopo in mano ed ho sempre ringraziato comunque di averli letti da giovane, anche se allora mi lamentavo.
Ed ho ringraziato, e continuo a farlo, la mia professoressa di Letteratura, che sapeva bene cosa scegliere per noi, anche se noi non capivamo, al tempo, perche’ doveva imporci le letture.
Erano ovviamente dei capolavori quelli che lei sceglieva e facevano parte del programma scolastico, probabilmente lei sapeva che, ad una seconda lettura, li avremmo apprezzati maggiormente e solo allora, avremmo ringraziato e capito il suo insistere nel vedere in noi l’attenzione che tali lavori meritavano.
Dicevo, era una parte di un libro letto a quei tempi, che mi ronzava da giorni nella mia mente.
Avevo però bisogno di confrontarmi con il testo reale per vedere se la mia memoria ricordava bene oppure stavo solo enfatizzando una storia che lessi e che la vedevo perfetta nella realtà che stavamo vivendo, ma che in realtà non era forse come la ricordava la mia mente.
Questo e’ l’esatto motivo per cui mi sono ripreso in mano il Decameron di Giovanni Boccaccio e gli ho dedicato una veloce rilettura.
“Dieci amici fuggono dalla città di Firenze quando viene chiusa dalla peste nera e si rifugiano in una villa sulle colline, dove ogni sera per una quindicina di giorni si raccontano storie d’amore e di tragedia.”
Dal Decameron
Ecco, ricordavo bene.
Era esattamente quello mi pareva di aver già sentito, vissuto, o solo letto.
Era la riflessione che stavo facendo di questo spirito che stava coinvolgendo la nostra vita negli ultimi dodici mesi, ad avermi riportato in mente quel libro.
In particolare, devo ammetterlo, trovo per certi versi affascinante cosa sia accaduto a tutti noi nelle “più strane settimane della nostra vita”, a cavallo tra Marzo e Aprile di un anno fa.
Quando il mondo intero è stato costretto per la prima volta a chiudere le porte delle nostre case per via del Covid-19.
COME RICOSTRIURE MEGLIO LA NOSTRA SOCIETA’?
Non siamo andati nelle colline di Firenze e neppure nel New Jersey o in una villa nel Kent, come hanno fatto il gruppo di amici nel Decamerone.
Abbiamo invece inconsapevolmente “ricreato” quelle situazioni che Boccaccio narrava nel suo capolavoro, con conversazioni condotte su Zoom, con i nostri amici.
Usando le nuove tecnologie, senza muoverci da casa.
Onestamente abbiamo parlato poco di storie d’amore o di tragedie, ma il nostro maggior argomento è stato come la Pandemia potesse darci l’opportunità di rimodellare la società, di “ricostruire meglio”, come dicevano gli striscioni appesi nei balconi delle nostre città.
Cercare d’avere una Società diversa e migliore, ed anche noi essere “migliori” come persone, quando tutto sarebbe “finito”.
Era uno spirito generale che mi aveva coinvolto e che amavo, una specie di ‘spinta invisibile’ fatta da slogan che ho pensato potessero essere genuini e reali e di cui era facile farsi paladini.
Ho amato quelle conversazioni con i miei amici e il mio interesse era genuino ed avevo molte speranze dentro di me, perché’ di queste conversazioni amavo certamente il loro contenuto e senza dubbio amavo molti di piu’ il loro tono.
Il modo di parlare con gli amici era differente e con alcuni di loro siamo andati avanti per ore, e certi giorni le chiamate si intercalavano una con l’altra e arrivavi alla sera accorgendoti di aver saltato il pranzo. Ma ne eri felice, perche’ ti sentivi pieno di stimoli e speranze, come non accadeva da tempo.
Tutti noi abbiamo catturato quel senso di allarme per noi stessi e per il Mondo intero, che ha caratterizzato le prime settimane di crisi, ma anche la novità iniziale un po’ “vertiginosa” di isolamento – strade tranquille, orari stravolti, tempo infinito per noi stessi– un nuovo modo di vivere che ci ha fatto credere che la rivoluzione poteva essere sul serio nell’aria e a portata di mano.
Ho vissuto nel mio animo la speranza che gli insegnamenti idealistici e sentimentali sulle possibilità del socialismo reale che si stava presentando per tutti noi.
“Nulla del vecchio sistema deve rimanere”, mi sono ripetuto da solo ed ho espresso a chi ha discusso con me via zoom o per semplici interminabili telefonate.
Inoltre ero fortemente convinto che tutto ciò che la bellezza e l’umiltà e la determinazione della nostra comune lotta doveva essere concentrata nel “volere bene se stessi, per poi volere bene il Mondo intero”.
Mi pareva un bello slogan e per dire il vero, oggi, ancora più di un anno fa, ci credo decisamente di più.
Meno lavoro, più amore, meno monologhi e più un dialogo a più voci.
Meno ego, più compassione e migliore organizzazione della vita.
Il momento dei primi mesi del lockdown, ha suscitato in me una sorta di ottimismo sognante ed ho diviso questi sogni con persone che la pensavano come me o che perlomeno avevano il piacere di dividere quelle riflessioni.
Ci sono stati fatti in quelle settimane, che ora paiono dimenticati.
Come per esempio Cuba che invia medici in Italia; la Cina che condivide i dettagli del sequenziamento del virus – sono state colte da me come prove improbabili di una nuova realtà collettivista.
“Clap for Heroes” in Inghilterra, l’ho visto come un momento emotivo e collettivo di unità, in cui Reali, celebrità e semplici cittadini, aprivano la porta di casa nello stesso istante e applaudivano per celebrare i lavoratori del NHS visti come “Eroi”.
Dove finalmente si cominciava a realizzare che i “lavoratori essenziali” nella nostra società, erano loro, i vigili del fuoco, chi guidava un Bus e non un calciatore che faceva 20 goal all’anno.
Con i miei interlocutori, via internet, ho instaurato un maggior rapporto di amicizia ed ho capito che non siamo amici solo per facili battute, o per parlare del tempo o della nostra squadra del cuore, ma perché’ la nostra fede nel socialismo internazionale e il desiderio di liberare la coscienza di tanta gente da pregiudizi e convenzioni, che spesso nascondono un senso di razzismo nel fondo dei loro discorsi, era reale e comune tra di noi.
Alla fine, abbiamo condiviso e continuiamo, specie ora, a condividere, che per raggiungere una “nuova normalità “, forse più utopica, abbiamo generalmente accettato che prima dobbiamo negoziare “la fuga dal lockdown”, capire il prossimo passo.
Cosa sarà dopo, quando tutto tornerà “quasi” normale. E se fino alla scorsa primavera il “dopo” ci pareva solo poche settimane distante da noi, ora che non sappiamo esattamente quando sara’.
Muoverci senza perdere quello che abbiamo capito nelle nostre coscienze e cercare di non perdere tutto perché’ abbiamo paura di cambiare.
Alcune soluzioni possono apparire, a questo problema del dopo lockdown, più dottrinali di altre, ma solo confrontandoci possiamo capire meglio dove smussare gli angoli per trovare una via comune soddisfacente.

Mi ricordo che Basilio Scalas, Presidente del Teatro Sardegna di Cagliari e con quarantennale esperienza nel settore culturale nel capoluogo sardo, mi disse in una delle prime discussioni, che “bisognava agire pensando al prossimo”, proponeva un “comunismo di una volta”, “in cui coloro che si sono ripresi dal virus” o che l’hanno evitato seguendo ciecamente le norme o si sono vaccinati, “dovevano essere cooptati a fare il lavoro in prima linea di coloro che non l’hanno ancora catturato o che per pura superficialità’ non vogliono vaccinarsi.”
Ed ecco, continuava Basilio, che ora sembrava a lui cruciale “avere una lista di persone su cui possiamo contare e che dovrebbero essere mobilitate per tenere in piedi i più deboli”.
Tutti i Paesi sono al momento fuori dall’economia del mercato e del denaro che abbiamo sempre conosciuto e stiamo entrando in qualcos’altro che ancora non sappiamo bene cosa sia.
Tony Samuel, responsabile del settore “Health and Safety” per Battersea, Clapham e Putney nel sud ovest di Londra, più pensieroso e riflessivo del sottoscritto, forse dovute alle sua origini indiane e alle sue frequentazioni yoga e gruppi di volontariato e meditazione, vedeva fin dall’inizio, i semi spontanei di un nuovo spirito di comunità, “una socialità localizzata” che può essere incoraggiata ridisegnando le città con il principio della “densità di camminare” decentrata; ricreando comunità in stile “villaggio” che hanno tutti i comfort, dai negozi di alimentari alle scuole alle palestre, permettendo alle persone di “non prendere i mezzi pubblici e spostarsi meno possibile per raggiungere il posto di lavoro”.
Poi c’è Peter Lowe, responsabile organizzativo della programmazione di “Sky News UK”, nonche’ uno dei corrispondenti esteri dell’ex Primo Ministro Tony Blair quando questo era in carica, che vede Zoom e questi sistemi che la nuova tecnologia ci offre, in funzione “de-privatizzata”, “come un bene pubblico, usando la tecnologia per cercare di costruire la solidarietà“. Ci ha lavorato dodici ore al giorno su Zoom fin dal primo giorno del lockdown, si è fatto una grossa esperienza e aggiunge: “Si presume che la solidarietà derivi dalla rabbia per l’ingiustizia. Ma non è vero; la solidarietà è un mestiere. Cosi come la mia di giornalista che cerca di raccontare le ingiustizie nella Società in cui viviamo”.
Personalmente, dopo questi confronti, ho molta fiducia nel “nuovo futuro”, perché i mie tre amici sono cosi diversi tra loro, si occupano di settori opposti tra di loro, ma sono cruciali nel loro ruolo nella società, quindi sono un buon “campione” d’osservazione.
Per cui, anche se ci sono frange nella Società, anche importanti nei ruoli che ricoprono, che vorrebbero tornare esattamente “come eravamo”, sono certo che ci sarà invece un forte cambiamento, specie per le generazioni che oggi sono sotto la soglia dei 25/30 anni.
Una modifica della nostra Società che perderà alcuni di noi come generazione, ma che ne imbarcherà di altre, più forti e combattive e rodate da questa esperienza.
Un nuovo entusiasmo dovrebbe abbracciare la maggioranza delle persone.
Ci vuole gente che faccia un passo avanti e tanti altri uno indietro.
Non tutti i presunti leader attuali sono convinti che dovrebbero rinunciare alle loro credenziali di guerrieri di classe in modo così leggero post-pandemia, ovviamente.
Quel futuro, evocato nelle nostre discussioni, può certamente apparire come un altro lontano astratto progetto a porte chiuse, ma io amo vederlo come una chiamata alle armi nell’organizzare futuri realistici, e una divertente distrazione dalle realtà attuali, a seconda di dove oggi sei seduto nello scacchiere della vita.
La fine della Pandemia può essere vicina.
E quella fine è un nuovo inizio.
E dobbiamo vederlo come “l’inizio” di uno dei periodi più belli che vedremo nella nostra vita e potremo vivere quei momenti senza paura, se oggi tutti facciamo bene il nostro passo.
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